Di fronte a questa storiella saremmo quasi portati, come i quattro fratelli, a credere che la divisione sia stata resa possibile grazie a un qualche intervento di tipo «magico». In realtà il saggio non ha operato alcuna magia, ma si è limitato semplicemente ad applicare una logica matematica rigorosa, ossia ad aggiungere una «x» – come si può fare nelle equazioni matematiche – in modo da rendere possibile un’operazione che, altrimenti, sarebbe stata impossibile. Alla fine dell’operazione, poi, non ha fatto altro che riprendersi la «x», vale a dire il quarantesimo cammello (che era il suo). L’adozione di una logica rigorosa di questo tipo ha permesso di risolvere in modo semplice un problema apparentemente molto complicato, che sembrava irrisolvibile a partire da una logica aristotelica tradizionale, basata sui presupposti del «vero o falso» e del «terzo escluso».
Questa storiella, a nostro avviso, rappresenta un’ottima metafora del modo di agire di un problem solver strategico. Proprio come il saggio errante, infatti, il “tecnico del cambiamento” che si trova a dover raggiungere un obiettivo, come risolvere un problema in azienda, mette in gioco i propri strumenti e la propria professionalità per poi riprenderseli dopo aver innescato un cambiamento evolutivo del sistema su cui è intervenuto.
Le sue strategie non sono tuttavia frutto di un improvviso atto di creatività, ma sono basate sull’applicazione di un preciso e rigoroso modello logico di intervento. In particolare, il Problem Solving Strategico si rifà a quella branca specialistica della logica matematica nota come «logica strategica» (Elster, 1979, 1985; Da Costa, 1989a, 1989b; Nardone, Salvini, 1997; Nardone, 1998).
Tale logica si differenzia dalle logiche tradizionali per la sua caratteristica di mettere a punto il modello di intervento sulla base degli obiettivi prefissati e delle specifiche caratteristiche del problema affrontato, piuttosto che sulla base di una rigida teoria precostituita. In altri termini, si rinuncia a seguire ciecamente una qualsiasi prospettiva rigida che fornisca, in maniera deterministica, indicazioni su come procedere o pretenda di dare una descrizione aprioristica ed esaustiva dei fenomeni che si stanno studiando.
In ambito aziendale esistono dei costrutti che per certi periodi sono stati «di moda»: negli anni ’70 le teorie su marketing e vendite, negli anni ’80 la qualità totale, negli anni ’90 l’organizzazione a stella, l’one-to-one marketing, la customer satisfaction, il relation marketing, le unità di business. Questo solo per citare alcune delle più diffuse teorie di marketing e di organizzazione aziendale (Stonich, 1985; Di Stefano, 1986; Depolo, Sarchielli, 1991; Peters, 1997).
Per quanto attiene, invece, alla comunicazione e alla gestione delle risorse umane, le teorie si sono evolute introducendo concetti come quello di leadership situazionale, diffusa, trasformazionale e gli innumerevoli modelli della comunicazione manageriale (Schein, 1987; Romano, Felicioli, 1992).
Tali costrutti rimandano a diversi modelli teorici e all’individuazione di strategie d’azione sempre più elaborate ed evolute. Spesso, però, la formulazione di una strategia non si confronta con l’attuazione della stessa, e quindi non si può dimostrarne l’efficacia. Una caratteristica comune a questi costrutti è spesso quella di basarsi su una visione della realtà che pretende di analizzare e descrivere in maniera univoca i fenomeni oggetto di studio. In altre parole, essi si basano su una visione monista della realtà, per cui esiste un’unica realtà «vera» dalla cui conoscenza non si può prescindere per poter mettere in atto un qualsiasi tipo di intervento.
Si tratta, quindi, di teorie caratterizzate da una forte rigidità e autoreferenzialità nell’individuazione e descrizione dei fenomeni che sono il loro oggetto di studio. Di conseguenza, da tali modelli derivano indicazioni metodologiche pratiche che appaiono fortemente condizionate dai presupposti teorici rigidi propri del modello stesso.
Qualunque teoria, anche la più sofisticata, nel momento in cui diventa fortemente determinista e assolutista si trasforma in una potente lente deformante della realtà cui si applica. Questo spesso pregiudica la realizzazione di un intervento realmente efficace nella sua applicazione pratica, poiché la strategia adottata sarà molto più influenzata dalla teoria di riferimento che dalle caratteristiche del problema da risolvere.
A questo proposito appaiono decisamente esemplificativi i famosi esperimenti eseguiti presso l’università di Stanford dallo psicologo Bavelas. L’esperimento in questione, cui furono sottoposti numerosi soggetti di diverso ceto, estrazione sociale, età e sesso, si svolgeva nel seguente modo.
<< Lo sperimentatore dichiarava al soggetto: «Io adesso leggerò un certo numero di coppie di cifre a due a due, lei dovrà dirmi se queste cifre si accordano o meno tra di loro». Invariabilmente, all’inizio della prova, tutti i soggetti chiedevano delle informazioni più precise riguardo a come questi numeri avrebbero dovuto «accordarsi».
Lo sperimentatore spiegava allora che il loro compito consisteva proprio nello scoprire tali nessi. Il soggetto veniva così a trovarsi in una situazione tipica degli esperimenti «per prove ed errori», in cui si inizia col dare delle risposte in modo casuale, aggiustando gradatamente la strategia di risposta sulla base delle conferme date dallo sperimentatore, sino a cogliere il nesso logico cercato. All’inizio lo sperimentatore dichiarava sempre sbagliate le risposte del soggetto, poi – senza seguire alcuna logica – cominciava a dichiarare che alcune erano giuste. Continuava, in seguito, sempre casualmente – ovvero senza alcuna valutazione effettiva della risposta – aumentando il numero di risposte definite come corrette.
L’esperimento procedeva facendo in modo che il soggetto avesse l’impressione di incrementare progressivamente la correttezza delle sue risposte. Quando si giungeva al punto in cui lo sperimentatoredichiarava sempre corrette le risposte del soggetto, lo psicologo interrompeva l’esperimento e chiedeva al soggetto di spiegargli come si fosse formato nella mente i modelli logici che lo avevano portato a procedere nell’esperimento e a stabilire un nesso fra le cifre proposte.
Le spiegazioni offerte erano solitamente complicatissime, talvolta decisamente astruse.
A questo punto, lo sperimentatore svelava il trucco dell’esperimento e confessava al soggetto che non esisteva alcun nesso logico che legava i numeri, e che aveva dichiarato giuste o sbagliate le risposte su uno schema preordinato. Non esisteva dunque alcuna reale corrispondenza tra le domande e le risposte, alcun nesso matematico, logico, figurativo, ecc.>>
Quello che appare particolarmente interessante è che, a questo punto, la stragrande maggioranza dei soggetti si rifiutava di credere allo psicologo e manifestava una grandissima difficoltà ad abbandonare la visione che aveva costruito nella propria mente. Alcuni soggetti, addirittura, cercavano di convincere lo sperimentatore che esistevano davvero dei nessi logici dei quali lui non si era ancora reso conto.
Questo esperimento, come molti altri dello stesso tipo, dimostra chiaramente come le persone presentino grandi difficoltà a modificare una propria convinzione, dopo che questa è venuta costruendosi mediante un processo esperienziale vissuto come efficace e si sia strutturata come teoria di riferimento del soggetto.
Già Schopenhauer aveva evidenziato l’influenza esercitata dalla teoria e dai modelli assunti nella relazione del soggetto con la realtà che si trova a dover gestire. A partire dal «principio di indeterminazione» di Heisenberg fino alla moderna epistemologia costruttivista, è apparso sempre più evidente il potere che l’assunzione di una teoria ha nella lettura dei fenomeni cui viene applicata. «Sono le teorie che determinano ciò che possiamo osservare» affermava Einstein già negli anni ’30.
Nonostante questa consapevolezza sia ormai universalmente diffusa nella moderna filosofia della scienza, la maggior parte degli approcci teorici e metodologici presenti attualmente nell’ambito della psicologia e sociologia del lavoro, così come della psicologia clinica, si basano ancora su teorie forti di tipo descrittivo e normativo. Ma, come abbiamo detto, si tratta di approcci che determinano le strategie di risoluzione di un problema in base ai propri rigidi presupposti teorici e indipendentemente dalle caratteristiche del problema da risolvere e dell’obiettivo da raggiungere.
Nel modello di Problem Solving Strategico, al contrario, il presupposto fondamentale è la rinuncia a qualsiasi teoria forte che stabilisca a priori la strategia di intervento.
In quest’ottica si evita di dare una definizione della natura delle cose e, di conseguenza, di determinare una modalità di intervento definitiva e universale. Da questa prospettiva è sempre la soluzione che si adatta al problema e non viceversa, come avviene invece nella maggioranza dei modelli di intervento tradizionali. La logica strategica vuole insomma essere flessibile e cerca di adattarsi al proprio oggetto di studio.
Tale approccio affonda le sue radici nella moderna epistemologia costruttivista, secondo la quale non esiste un’unica realtà ontologicamente «vera», ma tante realtà soggettive che variano a seconda del punto di vista adottato. La realtà viene considerata il prodotto della prospettiva, degli strumenti conoscitivi e del linguaggio mediante i quali la percepiamo e la comunichiamo (Salvini, 1988).
In base a questi presupposti, il valore di una teoria viene a dipendere non dalla sua supposta «veridicità», ma piuttosto dalla sua portata euristica, cioè dalla sua capacità di intervento reale, misurata in termini di efficacia ed efficienza nella risoluzione dei problemi. La sola domanda sensata che possiamo porci, dunque, non è quale teoria sia più «corretta» o rispecchi la realtà meglio delle altre, ma semplicemente quale teoria produca risultati più efficaci e rapidi (Nardone, Watzlawick, 1990).
Abbandonando la rassicurante tesi positivista di una conoscenza «scientificamente vera» della realtà, nell’intervento strategico ci si preoccupa di individuare i modi più «funzionali» di conoscere e agire, ovvero di aumentare quella che von Glasersfeld (1984) ha definito «consapevolezza operativa».
Al problem solver strategico non interessa conoscere le verità profonde e il perché delle cose,
ma solo «come» funzionano e «come» farle funzionare nel miglior modo possibile.
La sua prima preoccupazione è quella di adattare le proprie conoscenze alle «realtà» parziali che
si trova di volta in volta ad affrontare, mettendo a punto strategie fondate
sugli obiettivi da raggiungere e in grado di adattarsi, passo dopo passo, all’evolversi della «realtà».
Aumentare la propria consapevolezza operativa significa quindi lasciare in secondo piano la ricerca delle cause degli eventi per concentrarsi sullo sviluppo di una sempre maggiore capacità di gestire strategicamente la realtà che ci circonda in modo da raggiungere i propri obiettivi.
Il primo passo sarà dunque quello di evitare posizioni deterministe fin dalla prima osservazione della realtà su cui si dovrà intervenire. Per farlo, si dovrà orientare la nostra metodica di indagine in direzione del cambiamento già a partire dalle domande che ci poniamo. Innanzitutto, è importante evitare di porsi la domanda del «perché» la realtà problematica da affrontare si sia formata. Tale tipo di interrogativo, infatti, implica l’esistenza di un processo di causalità lineare alla base dei fenomeni, e rimanda dunque a una teoria di riferimento forte in grado di «spiegare» il «perché» delle cose, che noi rifiutiamo poiché non funzionale al raggiungimento della soluzione.
Come afferma Wittgenstein (1980), il linguaggio che noi utilizziamo ci utilizza, nel senso che i codici linguistici che usiamo per comunicare la realtà sono gli stessi che utilizziamo nella rappresentazione ed elaborazione delle nostre percezioni. Questo significa che linguaggi diversi conducono a differenti rappresentazioni della realtà.
Porsi una domanda con un codice linguistico piuttosto che con un altro non è dunque una scelta priva di conseguenze, perché il tipo di domanda veicola sempre il tipo di risposta.
Per un cambiamento strategico, quindi, non si può utilizzare un codice linguistico che riconduca a una ricostruzione causale, ma si deve usare un codice che si focalizzi sul processo di cambiamento.
Come chiarisce Salvini (1995), l’ottica assunta nell’osservare un fenomeno influenza le successive rilevazioni: se un medico analizza una realtà mediante criteri diagnostici, giungerà a rilevare una patologia coerente con i criteri usati come riferimento. Ovvero non «conosce», ma «riconosce» un fenomeno, poiché la sua metodica di indagine è viziata dai suoi rigidi codici rappresentazionali e linguistici. Come osservava Kant, la maggior parte dei nostri problemi non deriva dalle risposte errate che ci diamo ma dalle domande scorrette che ci poniamo.
In base a quanto detto, sostituiremo la domanda del «perché» con quella del «come funziona». Chiedendosi «come funziona» una data situazione, infatti, si evita di andare alla ricerca dei «colpevoli»,focalizzandosi, invece, sulle modalità che determinano la persistenza di un determinato equilibrio e su come questo possa essere modificato.
Questo significa orientare l’osservazione sulla persistenza di un problema piuttosto che sulla sua formazione. Perché è sulla persistenza di un problema che si può intervenire, e non sulla sua precedente formazione. A nessuno è data la possibilità d’intervenire nel passato. Chiedersi «come funziona» orienta l’indagine in direzione della ricerca del cambiamento nel presente, mentre domandarsi «perché» conduce a ricercare le spiegazioni in eventi già accaduti che non possono comunque essere cambiati.
Come il lettore può ben comprendere, questa differenza, apparentemente minima, nel porsi di fronte al problema rappresenta un aspetto cruciale che differenzia e caratterizza il processo di Problem Solving Strategico.
Assumere una tale prospettiva implica, a livello epistemologico, superare il concetto deterministico di unidirezionalità nel rapporto causa-effetto a favore di una concezione non deterministica in cui le variabili in relazione danno vita a un complesso sistema circolare di causazione reciproca (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1967). In tale sistema non esistono un inizio e una fine, una causa e un effetto, ma solo un insieme di reciproche influenze tra le variabili: nella causalità circolare, la causa produce l’effetto e l’effetto a sua volta influenza retroattivamente la causa divenendo esso stesso causa (Watzlawick, 1976). Questo concetto di feedback, tratto dalla Cibernetica, appare particolarmente appropriato per evidenziare la circolarità delle influenze reciproche proprie dei sistemi interpersonali, siano essi a livello di micro o di macro organizzazioni.
Nell’approccio strategico, quindi, si assiste al passaggio da una conoscenza che pretende di descrivere la verità delle cose, quella positivista e determinista, a una conoscenza operativa, quella costruttivista, che ci permette di gestire la realtà nel modo più funzionale possibile (Nardone, 1998).
Da questo punto di vista, il problem solver agisce anche in linea con i dettami dell’antico buddismo zen, che individuava due tipi di verità: le «verità d’essenza» e le «verità d’errore». Le prime, «trascendenti», possono essere raggiunte solo nell’aldilà grazie all’«illuminazione»; le seconde sono «verità strumentali» utili a costruire e realizzare progetti nel mondo delle cose e dell’apparenza. Ogni «verità d’errore», dopo essere stata utilizzata, si infrange e deve essere sostituita da altre «verità d’errore», le quali variano, di volta in volta, in virtù delle differenti realtà con cui tutti noi, in quanto esseri viventi, dobbiamo continuamente confrontarci (Watzlawick, Nardone, 1997).